La bioetica è "lo studio sistematico della condotta umana nell'ambito della scienza della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori morali e dei principi" (W.T. Reich, Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978).

Questa è la più "classica" delle definizioni che sono state coniate per questa disciplina. Se guardiamo alla storia della bioetica, inoltre, scopriamo che essa si è applicata in particolare ai problemi etici sollevati dagli straordinari progressi della medicina e delle altre scienze della vita.

        In questi ultimi decenni, infatti, se da una parte la medicina non e' piu' solo assistenza, ma e' anche un modo per intervenire sulla vita, dall'altra la ricerca e la sperimentazione biomedica, la nuova genetica e le biotecnologie, giunte ormai alle soglie del mistero della vita, consentono all'uomo di prendere in mano il proprio destino.

        Tutto questo rappresenta una svolta epocale, impensabile solo pochi anni fa, che pone l'umanità di fronte al difficile problema di decidere quali, tra le pratiche oggi "tecnicamente" possibili, siano anche "eticamente" lecite.
Questo è appunto il compito della bioetica.

        "Decidere quali, tra le pratiche oggi "tecnicamente" possibili..." Ciò significa che per comprendere di cosa si sta parlando è di fondamentale importanza, innanzitutto, avere per lo meno un' idea di ciò che oggi è effettivamente possibile. Rendersi conto di ciò che costituisce materia di indagine e riflessione per la bioetica è qualcosa che richiede una conoscenza degli eventi più significativi in ambito scientifico e tecnologico, delle tappe che hanno condotto l'umanità agli attuali traguardi.

        La bioetica, del resto, è chiamata a dare risposta non tanto a questioni meramente "astratte" o accademiche, ma a problemi dai risvolti assai concreti, spesso drammaticamente concreti. Come ha giustamente fatto notare H. T. Engelhardt, "la bioetica nasce spontaneamente dalle preoccupazioni di pazienti, medici e infermieri" (Manuale di Bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 14).

        Ma tale "concretezza" ci mette subito di fronte ad una carratteristica intrinseca della bioetica: il suo essere sostanzialmente non una disciplina in senso stretto, bensì un approccio interdisciplinare. Infatti ognuna delle questioni sulle quali la bioetica si esercita presenta aspetti di grande rilevanza per discipline quali la medicina, la biologia, il diritto, la teologia, la filosofia, la psicologia, la sociologia, l'economia, l'ecologia, ecc. Occorre dunque che la bioetica si sviluppi attraverso un continuo confronto tra studiosi e operatori di matrice diversa, disposti a scambiarsi informazioni, interrogativi ed esperienze, oltre che a superare le inevitabili incomprensioni che scaturiscono da approcci e prospettive teoriche spesso assai distanti.

        Un'altra caratteristica intrinseca della bioetica, non meno importante della precedente, è il suo essere "campo e occasione di un dibattito pubblico, che esplicitamente si propone di sottrarre alla esclusiva gestione degli esperti temi che sono di interesse comune". (Bioetica, a cura di A. Di Meo e C. Mancina, Laterza, Bari 1989, Prefazione)

        Tuttavia, se sul carattere interdisciplinare della bioetica tutti gli studiosi sembrano concordi, sulla sua dimensione "pubblica" le idee sono dissonanti. Anzi, le divergenze in materia sono forse più profonde di quanto non lo siano quelle "classiche" tra etiche di derivazione teologico-religiosa, basate su verità rivelate e su dogmi, ed etiche laiche, che assumono valori più materiali quali principi-guida. Una buona parte degli studiosi, ad esempio, tende a limitare la propria indagine alle applicazioni della ricerca, evitando di porre il problema di tutto ciò che "sta a monte", e in particolare di quale concezione della scienza si debba ritenere preferibile, mettendo se necessario in discussione il modello imperante.

        La questione, invece, è della massima importanza, dal momento che se la scienza è comunque e sempre fuori discussione, se cioè si segue il vecchio adagio secondo cui "la scienza non è né buona né cattiva e il problema è costituito esclusivamente dall'uso che se ne fa", è inevitabile che la bioetica veda restringersi sensibilmente il proprio territorio e si precluda, di fatto, la possibilità di intervenire e di incidere in profondità.

        Ai non-specialisti, all'opinione pubblica, in tal caso, non resta che prendere atto che il dibattitto è tutt'altro che "aperto" e "pubblico", che la possibilità di intervenire in esso è limitata alla fase in cui "i giochi sono già fatti" e la discussione, per quanto animata, rischia di assomigliare ad una semplice esercitazione accademica.

        Spostando non di molto l'angolo visuale, si può inoltre facilmente scorgere un altro importantissimo nodo della bioetica: il rapporto tra quest'ultima e la filosofia. Rapporto che si alimenta sia della riabilitazione della filosofia pratica in atto in questi anni nell'ambito della cultura tedesca (ma non solo), con particolare riferimento all' etica aristotelica e a quella di Kant, sia degli sviluppi della riflessione filosofica sull'etica in ambito anglosassone, che a partire dai primi anni settanta si è cimentata soprattutto nella costruzione di precise teorie normative (Cfr. Eugenio Lecaldano, "La sfida dell'etica applicata e il ragionamento in morale", in Maurizio Mori (a cura di), Questioni di bioetica, Ed. Riuniti, Roma 1988).
        I temi che in tal modo si sono imposti all'attenzione sono quelli della responsabilità ("di chi" e "verso chi"), del rapporto etica-scienza, etica-diritto, etica-religione, e infine quello che ben si compendia nel titolo di un saggio di Stephen Toulmin: Ragione ed etica. Un esame del posto della ragione nell'etica (Astrolabio, Roma 1987).

        Domandarsi quale sia il posto della ragione nell'etica rappresenta certamente il più filosofico tra i temi del dibattito sulla bioetica. Ma è ancora più importante sottolineare che tale questione diventa decisiva nel momento in cui si fa sempre più strada la convinzione che, in una società pluralista, una civile convivenza tra posizioni, storie, religioni e culture diverse e talvolta lontanissime non può che "cercare un superamento del disaccordo mediante il ricorso ad argomentazioni razionali", perché "il campo della morale è proprio quello in cui i disaccordi relativi a decisioni e scelte, ben lungi dal presentarsi come irrisolti, vengono resi pubblici nel tentativo di risolverli, non tanto con il ricorso alla forza o con un appello ad autorità o a intuizioni o emozioni personali, quanto con procedure razionali condivise da tutti" (E. Lecaldano, op. cit., p. 42).

        H. T. Engelhardt ha espresso tutto ciò con questa magistrale osservazione: "La bioetica si sta sviluppando come la lingua franca di un mondo che si interessa sell'assistenza sanitaria ma non possiede una concezione etica comune" (Manuale di Bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 11).

        "Forse nessun altro campo dell'etica applicata - scrive Antonio Autiero - manifesta tanta intolleranza alla polarizzazione come la bioetica" (Introduzione a Centri di bioetica in Italia, a cura di Corrado Viafora, Fondazione Lanza e Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1993, p. 26). Ecco perché, "usciti dalla ubriacatura della ragione lineare dell'illuminismo e desiderosi di punti di riferimento ispirativi del vivere e normativi dell'agire", abbiamo bisogno di "una ragione «trasversale» che - lo aveva intuito Wittgenstein nella prefazione delle sue Philosophiche Untersuchungen - ha per caratteristica fondamentale quella di abbracciare il destino di una radicale pluralità in cui va a dissolversi la presunta totalità unificante, che era il sogno e l'impresa della modernità". (Ibid., p.27). Un'autentica sfida filosofica, questa, che sarebbe però un errore considerare alla stregua di una disputa tra filosofi. Infatti è probabilmente su di essa che si gioca il futuro stesso della bioetica.

        Un risvolto sociologico della questione - che ci riporta alla dimensione pubblica della bioetica, cui si è accennato in precedenza - è colto da Edgar Morin, per il quale una "folle" ragione, consumata la dissociazione dall'umanesimo e divenuta "il grande mito unificatore del sapere, dell'etica e della politica", rappresenta ormai "una delle fonti del totalitarismo moderno" (Scienza con coscienza, Franco Angeli, Milano 1987, cit. in F. Terragni, Il codice manomesso. Ingegneria genetica: storia e problemi, Feltrinelli, Milano 1989, p. 190).

Dolly         E' inevitabile, a questo punto, aprire un immenso contenzioso nel quale vengono evocati scenari economici e politici di dimensione planetaria. Del panorama fanno parte a pieno titolo le biotecnologie, la brevettabilità della vita, le clonazioni, le tecniche di fecondazione artificiale in vitro, le esigenze della globalizzazione dei mercati, la realtà dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, il modello di società che si sta preparando.

        A ciascuno di noi, scienziati o semplici cittadini, studenti o uomini delle istituzioni, compete una precisa assunzione di responsabilità. Tutti hanno il diritto di essere informati, formati e interpellati sulle ricadute dei progressi scientifici e tecnologici, dal rischio biologico alle conseguenze per gli ecosistemi. Il che presuppone che vi sia chi si faccia carico, istituzionalmente o spontaneisticamente, di svolgere questo non facile compito. Ma nel contempo si richiede una rinuncia all'ignavia, un abito mentale che non è sempre e soltanto la conseguenza di una mancata o scarsa informazuione/formazione.

La posta in gioco è, inutile dirlo, il futuro di ciascuno di noi.
Ed ecco, qualora occorresse sottolinearlo, un ottimo motivo per portare la bioetica nella scuola.


Torna alla Pagina principale